La cultura e l’avanzamento delle società inducono a pensare che sia logico attribuire ad ogni individuo la stessa valenza e gli stessi diritti. E’ un assunto sacrosanto, sul quale poggiano salde le basi di qualsiasi sviluppo sociale.

E’ però altrettanto vero che in troppi luoghi nel mondo, gli esseri umani hanno più o meno valore a seconda che sbrighino le loro minzioni in piedi o debbano sedersi…

La “questione femminile” (come se fosse necessario parlare di questione femminile in una società evoluta), è da sempre dibattuta negli aspetti evidenti che essa presenta.
E’ importante la continua e costante attività di stimolo ad una maggiore presa di coscienza. Alla quale non dobbiamo sottrarci mai!

Ci sono evidenti pieghe della civiltà, nelle quali si collocano gruppi che vanno a costituire loro malgrado, una sorta di “minoranza” nell’ambito dei diritti. Tra questi sono presenti anche le donne, e ci sono per il semplice fatto di essere donne!

GLI ISTITUTI DAR AL REAYA

Il mondo arabo è certo distante dagli usi e costumi dell’Occidente, come lo è l’Asia, con tutte le sue contraddizioni sociali e come lo è perfino il Sudamerica e molti altri Paesi.
L’Arabia Saudita, Paese ricco e proiettato tecnologicamente e socialmente alla testa del mondo islamico, sente il bisogno di formalizzare il suo pensiero sulle restrizioni alle donne. Lo fa spiegando che negli istituti Dar al Reaya ci finiscono due tipi di donne: quelle che hanno bisogno di “correzione sociale” e di “rafforzamento della fede religiosa” perché “hanno deviato dalla retta via”…
La Dar al Reaya è un’istituzione il cui nome si traduce con “casa di cura”.

La cosa avvilente è che questa “filosofia” viene spiegata e promulgata direttamente dal ministero per le risorse umane e lo sviluppo sociale saudita.

Beh, cosa dire? Le donne hanno bisogno..? Chi sia questo arbitro supremo che determina il bisogno, non ci è dato saperlo! E probabilmente, appena finita questa lettura, non ce ne fregherà più un cazzo di preoccuparci di questo tema che, tutto sommato, è distante anni luce dalle nostre preoccupazioni, non è forse così?

LE CASE DOVE LE DONNE DISUBBIDIENTI VENGONO PUNITE

Amani al Ahmadi a 10 anni è stata portata nell’auditorium della sua scuola femminile di Yanbu, (città sul mar Rosso nella provincia di Al Madinah, in Arabia Saudita). Lei e le sue compagne ricevono la visita di un gruppo di donne di un centro Dar al Reaya, il famigerato sistema di strutture di detenzione femminile.
Le piccole siedono, e sulla parete sono proiettate le foto di piccole celle in grado di ospitare due o quattro ragazze. Altre immagini mostrano donne con herpes o malattie sessualmente trasmissibili. Al Ahmadi e le sue compagne sono terrorizzate.

Le visitatrici le hanno quindi ammonite: Se volete evitare che tutto ciò accada anche a voi dovete obbedire alle famiglie ed evitare di mescolarsi con i ragazzi, altrimenti sarete rinchiuse o vi ammalerete.

Al Ahmadi, oggi vive negli Stati Uniti e si batte per i diritti delle donne. Denuncia il modo in cui il governo saudita costringe le donne a rispettare il suo sistema patriarcale di tutela. In base a questo sistema, un parente maschio, marito, padre o figlio, ha la piena autorità per prendere le decisioni per conto di una donna.

NOTIZIE E INFORMAZIONI NON TRAPELANO FACILMENTE

Quello che si riesce a conoscere del sistema Dar al Reaya arriva da frammentari racconti di chi ci ha lavorato. Altri aspetti provengono dalle dirette testimonianze di ex recluse, note come “nazeelat“.
Pur non essendo prigioni tradizionali, in questi istituti le cose vanno come se lo fossero. Le donne recluse subiscono trattamenti peggiori di quelli di un carcere.
Su un video caricato su YouTube, si vede una donna che racconta di essere stata perquisita al suo arrivo e messa in isolamento. Racconta che la notte sentiva le donne nelle loro celle emettere suoni simili a miagolii.
La donna sperava che il video facesse conoscere ciò che accade nelle “case di cura”, ma è stato subito rimosso.
Gli account Twitter che parlavano dei centri Dar al Reaya sono stati sospesi.

In rete è possibile trovare unicamente denunce o articoli di attiviste saudite per i diritti delle donne. Le notizie riescono ad arrivare da fuggitive rifugiate all’estero. L’unico triste insegnamento è la difficoltà per chi decide di scappare.

Viene da interrogarsi su chi operi un controllo in rete e quali poteri eserciti nei social, visto che riesce a far rimuovere post scomodi.
I social sono un “puttanaio” dove chiunque pubblica di tutto, eppure certe cose spariscono e gli account vengono sospesi o cancellati. Come mai qualcuno, nella stanza dei bottoni, provvede alla censura?

I maliziosi potrebbero pensare ad azioni indotte in cambio di laute ricompense o di interessi da non calpestare… Ma a farne le spese c’è sempre qualcuno che soffre!
Ma in fondo a chi frega niente di qualche ragazza saudita, visto che nel loro Paese sono considerate meno che un cane da compagnia?
Le donne imprigionate nelle Dar al Reaya subiscono violenze fisiche e psichiche e il mondo, non deve saperlo!

VIETATO RIBELLARSI

Nella Dar al Reaya ci finiscono pure quelle donne che tentano di sottrarsi agli abusi subiti in casa, denunciando o tentando di fuggire dal loro tutore.
E’ una società che ha istituzionalizzato il sistema di tutela. Se una donna deve avere il permesso di un uomo per muoversi, dove vanno quelle che non hanno un tutore?

Nel 2014 alcune attiviste hanno inviato una lettera al re dell’epoca, Abdullah, chiedendo la modifica delle leggi, la richiesta non fu ascoltata.

SUICIDI DELLA DISPERAZIONE

Ci sono stati anche dei suicidi. Lamia, una detenuta, si è impiccata in cella dopo venti giorni di isolamento.
Il governatore di Jeddah in carica allora, ha proceduto ad un’indagine. Il responsabile della struttura ha accusato il ministero per gli affari sociali, a cui è affidata la supervisione dei centri Dar al Reaya, di non aver installato correttamente le telecamere di sorveglianza nella cella. Alla fine nessun responsabile è stato indicato nell’inchiesta e l’accaduto è rimasto impunito.

UN CIRCOLO VIZIOSO

Nei Dar al Reaya ci sono le minori di trent’anni. Mentre, in un altro tipo di struttura, chiamata Dar al Theyafa, tradotto in “Casa dell’ospitalità”, sono rinchiuse le donne che hanno scontato le condanne e aspettano di tornare a casa.

Entrambe le strutture sono sotto il controllo dello stesso ministero.

Le donne che sono “rieducate” nei Dar al Theyafa, quando escono vanno in custodia ad un tutore. Solitamente lo stesso dal quale hanno cercato di scappare o che le ha mandate in prigione.
Se la famiglia o il tutore non intendono riaccettare la donna, l’istituzione le trova un pretendente. Molte donne sono state costrette al matrimonio.

In verità non c’è una regola chiara sulle azioni che sono considerate reato. I giudici interpretano soggettivamente la religione e questo produce disparità nei giudizi. Per la stessa accusa, ad una donna possono essere comminati tre mesi e ad un’altra un anno di reclusione e, tanto per gradire, un centinaio di frustate.
Per le donne dell’Arabia Saudita, capire cosa sia permesso e cosa no, è un esercizio piuttosto arduo.

IL CAMBIAMENTO ANNUNCIATO. SOLO ANNUNCIATO

A giugno 2017 Mohammed bin Salman è diventato principe ereditario, e la monarchia sembrò voler fare qualcosa per allentare la tensione sulle donne. Il principe ha promesso che il divieto di guidare per le donne sarebbe stato rivisto, che avrebbe ammorbidito le restrizioni sui contatti tra i generi, concesso i cinema alle donne e le norme sulla tutela sarebbero state alleggerite.


Successivamente però il principe ereditario ordina l’incarcerazione di alcune attiviste saudite e un anno dopo i servizi segreti USA lo indicano come responsabile dell’omicidio, al consolato saudita di Istanbul, del giornalista Jamal Khashoggi.

CONCLUSIONE AMARA

Ad oggi quindi, niente di nuovo sotto il sole. Le donne continuano a essere trattate come proprietà, come individui da controllare. E in base alla latitudine nella quale nascono, sono costrette a dover fare i conti con società più o meno maschiliste.

Da noi, per fortuna, questo non accade. Peccato solo che abbiamo dovuto coniare un neologismo: femminicidio!

Giorgio Consolandi